James Joyce
Dubliners
The Sisters – An Encounter – Araby – Eveline – After The Race – Two Gallants
The Boarding House – A Little Cloud – Counterparts – Clay
A Painful Case – Ivy Day In The Committee Room – A Mother – Grace – The Dead
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A Painful Case
Traduzione-By © SpaziDigitali
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Mr James Duffy viveva a Chapelizod perché desiderava vivere il più lontano possibile dalla città di cui era cittadino e perché trovava tutti gli altri sobborghi di Dublino meschini, moderni e pretenziosi. Stava in una vecchia casa umbratile e dalle sue finestre poteva gittar lo sguardo sulla distilleria in disuso, o più in su, lungo il poco profondo fiume su cui è stata costruita Dublino. Le alte pareti della sua camera, non tappetata, erano libere di quadri. Lo aveva comprato lui stesso, ogni articolo del mobilio che arredava la camera: un letto di ferro nero, un portacatino di ferro, quattro sedie di vimini, un attaccapanni, un secchio per il carbone, una caminiera coi connessi ferri, e un tavolo quadrato che si stendeva in doppia scrivania. Una libreria con scaffali di legno bianco era stata montata in una nicchia della parete. Il letto era guarnito con lenzuola e coltri bianche e uno scendiletto nero e scarlatto ne copriva i piedi. Uno specchietto a mano pendeva da sopra il portacatino e durante il giorno una lampada di bianco-schermata rimaneva il solo ornamento della mensola del caminetto. I libri, sugli scaffali di legno bianco, eran disposti da sotto in su secondo la mole. Un completo Wordsworth stava collocato a un estremo dello scaffale più basso, e una copia del Maynooth Catechism, cucita entro la copertina telata di un taccuino, stava collocata a un estremo dello scaffale più alto. I materiali per la scrittura erano sempre sulla scrivania. Dentro la scrivania c’era una traduzione manoscritta del Michael Kramer di Hauptmann, con le didascalie di scena scritte in inchiostro violaceo, e una piccola risma di carte tenute insieme da una molletta in ottone. In questi fogli, di tanto in tanto, veniva scritta una frase e, in un momento d’ironia, sul primo foglio era stato incollato il ritaglio di una pubblicità per i Bile Beans. Alzando il coperchio della scrivania, ne usciva una tenue fragranza – la fragranza di matite nuove in legno di cedro, o di una bottiglia di gomma, o di una stramatura mela che doveva essere stata lasciata lì e dimenticata.
Mr Duffy aborriva qualsiasi cosa che denotasse un disordine fisico o mentale. Un medico medievale lo avrebbe definito un saturnino. La sua faccia, che mostrava l’intera storia dei suoi anni, aveva la bruna tinta delle strade di Dublino. Sulla sua lunga e piuttosto grossa testa, crescevano aridi capelli neri, e i fulvi baffi non coprivano del tutto una poco gradevole bocca. Anche gli zigomi davano alla sua faccia un carattere di durezza; ma non c’era durezza negli occhi, i quali, guardando il mondo da sotto le fulve sopracciglia, davano l’impressione d’un uomo sempre pronto a salutare negli altri impulsi di redenzione, ma spesso deluso. Viveva a una qualche distanza dal suo corpo, e ne rilevava gli atti con dubbiose occhiate laterali. Aveva una strana abitudine autobiografica che di tanto in tanto lo spingeva a comporsi nella mente delle brevi frasi su sé stesso, contenenti il soggetto in terza persona e il verbo al passato. Non faceva mai ai mendicanti l’elemosina, e camminava con risolutezza, portando un robusto bastone di nocciuolo.
Era, da parecchi anni, cassiere di una banca privata sita in Baggott Street. Ogni mattina egli prendeva il tram e arrivava in sede da Chapelizod. A mezzogiorno andava da Dan Burke e faceva colazione – una bottiglia di birra chiara e un vassoietto di biscotti di arrowroot. Alle quattro tornava libero. Cenava in una trattoria di George’s Street, dove si sentiva al sicuro dalla dorata gioventù di Dublino, e dove c’era una certa pretta onestà nel prezzo del menù. Le serate le passava o davanti al pianoforte della padrona di casa o aggirando a tondo le periferie della città. La sua inclinazione per la musica di Mozart lo indirizzava alle volte a un’opera o a un concerto: queste erano le uniche dissipazioni della sua vita.
Non aveva né compagni né amici, né chiesa né credo. Viveva la sua vita spirituale senza comunione alcuna con gli altri, visitando i parenti a Natale e accompagnandoli al cimitero quando morivano. Ottemperava questi due doveri sociali, per rispetto all’antica dignità, ma non concedeva niente di più alle convenzioni che regolano la vita civile. Si permetteva di pensare che in certe circostanze avrebbe rubato alla sua banca, ma poiché queste circostanze non si presentavano mai, la sua vita si svolveva equabilmente – una storia senza avventure.
Una sera si trovò seduto accanto a due signore, al Rotunda. La sala, scarsamente popolata e silenziosa, dava un desolante presagio di fallimento. La signora che sedeva di fianco a lui, girò lo sguardo, una volta o due, intorno alla sala deserta, e poi disse:
“Peccato che ci sia un tale povero pubblico, stanotte! È così duro per la gente dover cantare alle panche vuote.”
Egli prese l’osservazione come un invito a parlare. Fu sorpreso che lei sembrasse così poco imbarazzata. Mentre parlavano, cercò di figgerla stabilmente nella memoria. Quando seppe che la giovane ragazza accanto a lei, ne era la figlia, egli la giudicò di circa un anno più giovane di sé medesimo. La faccia di lei, che doveva essere stata piacevole, era rimasta intelligente. Era una faccia ovale con lineamenti fortemente marcati. Gli occhi erano di un blu molto scuro e fermi. Il loro sguardo cominciò con una nota di sfida, ma fu confuso da ciò che parve un deliberato dilatarsi della pupilla nell’iride, rivelando per un istante un temperamento di grande sensibilità. La pupilla riaffermò sé stessa rapidamente, questa semi-dischiusa natura ricadde sotto il regno della prudenza, e la giacchetta di astrakan, modellando un seno di una certa pienezza, tempellò la nota di sfida in modo più definito.
Dopo poche settimane la rincontrò a un concerto in Earlsfort Terrace, e approfittò dei momenti in cui l’attenzione della figlia era distolta, per diventare intimo. Lei alluse, una volta o due, al marito, ma il tono fu tale da non far dell’allusione un avvertimento. Il suo nome era Mrs Sinico. Il trisavolo del marito era venuto da Livorno. Il marito era capitano di una nave mercantile che faceva servizio tra Dublino e l’Olanda; e avevano quella sola figlia.
Incontrandola per caso una terza volta, egli trovò il coraggio di fissare un appuntamento. Lei ci andò. Fu il primo di molti incontri; s’incontravano sempre di sera, e sceglievano i quartieri più tranquilli, per fare le loro passeggiate. Mr Duffy, però, aveva ripugnanza per i sotterfugi e, trovando che erano costretti a incontrarsi furtivamente, la forzò a invitarlo a casa sua. Il Capitano Sinico incoraggiò quelle visite, credendo che in ballo ci fosse la mano della figlia. In quanto alla moglie, egli l’aveva così sinceramente rimossa dalla sua galleria dei piaceri, che non sospettava che qualcun altro potesse provare un interesse per lei. Siccome il marito era spesso via e la figlia fuori, a dare lezioni di musica, Mr Duffy ebbe molte opportunità di godersi la compagnia della signora. Né lui né lei avevano mai avuto un tal genere d’avventura, prima di allora, e nessuno dei due la reputava un’incongruità. A poco a poco egli avviluppò i suoi pensieri con quelli di lei. Le prestò dei libri, le fornì delle idee, condivise con lei la sua vita intellettuale. Lei ascoltava tutto.
A volte, in contraccambio alle sue teorie, lei rivelava qualche fatto della propria vita. Con quasi materna sollecitudine lo incitò a che la sua natura si aprisse pienamente: divenne il suo confessore. Egli le raccontò che per qualche tempo aveva assistito alle riunioni di un Irish Socialist Party, dove si era sentito una figura unica in mezzo a una ventina di sobri operai, in una soffitta illuminata da una inefficiente lampada a olio. Quando il partito si era diviso in tre sezioni, ognuna con il proprio capo e con la propria soffitta, egli aveva diradato le sue partecipazioni. Le discussioni degli operai, disse, erano troppo timorose; l’interesse che ponevano nelle questioni salariali, eccessivo. Sentiva che erano asperrimi realisti e che li infastidiva un’esattezza ch’era il frutto d’un tempo-libero, di un agio, che non era alla loro portata. Nessuna rivoluzione sociale, le aveva detto, avrebbe verosimilmente colpito Dublino, non prima del volgere di alcuni secoli.
Lei gli domandò perché non scriveva i suoi pensieri. Per che cosa, le domandò lui, con attento sdegno. Per competere con i trafficafrasi, incapaci di pensare per sessanta secondi consecutivi? Per sottoporre sé stesso alla critica di una classe media ottusa, la quale affidava la propria moralità ai poliziotti e le sue belle arti agl’impresari?
Andò spesso a trovarla nella sua piccola villetta fuori Dublino; spesso passavano le serate da soli. A poco a poco, come i loro pensieri s’avviluppavano, loro due si misero a parlare di argomenti meno remoti. La compagnia di lei era per lui simile a una terra calda per una pianta esotica. Astenendosi dall’accendere la lampada, e per più volte, lei lasciò che il buio si spandesse d’intorno a loro. La buia stanza discreta, l’isolamento, la musica che ancora vibrava nelle loro orecchie, li univa. Questa unione lo esaltava, smussava le ruvide spigolosità del suo carattere, rendeva emotiva la sua vita mentale. A volte si coglieva nell’atto di ascoltare il suono della propria voce. Pensava che agli occhi di lei fosse asceso a un’angelica statura; e, nel mentre che legava più e più strettamente a sé la fervente natura della sua compagna, egli udiva la strana impersonale voce che riconosceva come propria, insistere sull’incurabile solitudine dell’anima. Non possiamo abbandonarci, diceva la voce: apparteniamo sempre a noi stessi. La fine di questi discorsi fu che una notte, durante la quale aveva mostrato ogni segno d’insolita eccitazione, Mrs Sinico gli afferrò la mano appassionatamente e se la premette sulla guancia.
Mr Duffy ne fu davvero molto maravigliato. L’interpretazione che lei aveva dato alle sue parole lo disilluse. Non le fece visita per una settimana, poi le scrisse chiedendole che si incontrassero. Siccome non desiderava che il loro ultimo colloquio venisse turbato dall’influenza del loro rovinato confessionale, s’incontrarono in una piccola pasticceria vicino al Parkgate. Era un clima freddo, autunnale, ma nonostante il freddo, vagarono su e giù lungo le strade del Parco, per quasi tre ore. Furono d’accordo nell’interrompere la loro relazione: ogni legame, egli disse, è un legame di dolore. Quando uscirono dal Parco, camminarono in silenzio verso il tram; ma qui lei cominciò a tremare in modo così violento che, temendo da parte di lei un altro collasso, egli la salutò in fretta e la lasciò. Poi, dopo alcuni giorni, ricevette un pacco contenente i libri che le aveva prestato e la musica.
Quattro anni passarono. Mr Duffy ritornò al suo equabile tenore di vita. La sua camera ancora persistente testimone dell’ordine della sua mente. De’ nuovi brani di musica ingombravano il leggio nella camera a pianterreno, e sugli scaffali, vi erano stati posti due volumi di Nietzsche: Thus Spake Zarathustra e The Gay Science. Scriveva di rado sulla risma di carte che stavano nella scrivania. Una delle frasi, scritta due mesi dopo il suo ultimo colloquio con Mrs Sinico, diceva: L’amore tra uomo e uomo è impossibile perché non dev’esserci un rapporto sessuale e l’amicizia tra uomo e donna è impossibile perché dev’esserci un rapporto sessuale. Per tema d’incontrarci lei, si tenne distante dai concerti. Suo padre morì; il socio giovane della banca si ritirò. E ancora ogni mattina egli si recava in città, col tram, e dalla città ogni sera s’incamminava verso casa, dopo aver consumato una frugale cena in George’s Street, e letto l’edizione serale del giornale per dessert.
Una sera, mentre stava per mettere in bocca un morso di manzo salato e cavoli, la sua mano si bloccò. I suoi occhi si fissarono su un trafiletto nell’edizione serale del giornale che aveva appoggiato contro la caraffa dell’acqua. Ripose il morso di cibo sul piatto e lesse attentamente il trafiletto. Poi bevette un bicchiere d’acqua, spinse il piatto di lato, ripiegò tra i gomiti il giornale, lì dinanzi a sé, e rilesse il trafiletto, ripetendo più volte la lettura. Sul piatto il cavolo incominciò a depositarci un freddo, bianco grasso. La ragazza venne a domandare se la cena non fosse stata cucinata bene. Egli disse che era molto buona e con difficoltà ne mangiò pochi bocconi. Poi pagò il conto e uscì dalla trattoria.
Camminò in fretta nel crepuscolo di Novembre, il robusto bastone di nocciuolo battendo il suolo con regolare cadenza, lo scrimolo color camoscio del Mail spuntante fuori da una tasca laterale dello stretto soprabito reefer. Sulla strada solitaria che dal Parkgate porta a Chapelizod, egli rallentò il passo. Il bastone batté il suolo con meno enfasi e il fiato, emesso irregolarmente, quasi con un suono sospirante, si condensava nell’aria invernale. Quando raggiunse casa sua, salì subito in camera da letto e, traendo il giornale dalla tasca, rilesse di nuovo il trafiletto, sotto la scemante luce della finestra. Non lesse ad alta voce, ma muovendo le labbra come fa un prete quando legge le preghiere del Secreto. Ecco che c’era nel trafiletto:
DEATH OF A LADY AT SYDNEY PARADE
A PAINFUL CASE
Oggi all’Ospedale della Città di Dublino, il Delegato Coroner (in assenza di Mr Leverett) ha condotto un’inchiesta sul corpo di Mrs Emily Sinico, di anni quarantatrè, rimasta uccisa ieri sera alla Stazione di Sydney Parade. Le prove hanno dimostrato che la defunta signora, mentre tentava di attraversare i binari, fu investita dalla locomotiva dell’accelerato delle dieci proveniente da Kingstown, riportando ferite, alla testa e al fianco destro, che ne causarono la morte.
James Lennon, il macchinista, dichiarò che da quindici anni era alle dipendenze della compagnia ferroviaria. Udendo il fischio della guardia, mise il treno in moto, e dopo un secondo o due lo frenò per via di alte grida. Il treno procedeva lentamente.
P. Dunne, facchino, dichiarò di aver avvistato, mentre il treno stava per avviarsi, una donna che tentò di attraversare i binari. Egli le corse incontro e gridò, ma, prima che potesse raggiungerla, lei fu colpita dai respingenti della locomotiva e cadde a terra.
Un giurato. “Avete visto la signora cadere?”
Testimone. “Sì.”
Il Sergente di polizia Croly asserì che quando giunse trovò la defunta palesemente morta e giacente sulla banchina. Aveva fatto portare il corpo nella sala d’aspetto, lì attendendo l’arrivo dell’ambulanza.
L’agente 57E ha confermato.
Il Dr Halpin, assistente chirurgo dell’Ospedale della Città di Dublino, dichiarò che la defunta aveva riportato la frattura di due costole inferiori e severe contusioni alla spalla destra. Il lato destro della testa era stato offeso nella caduta. Le lesioni non erano sufficienti a causare la morte in una persona normale. La morte, a suo parere, era stata probabilmente dovuta allo shock e all’improvvisa cessazione dell’attività cardiaca.
Mr H. B. Patterson Finlay, per conto della compagnia ferroviaria, espresse il suo profondo rincrescimento per l’incidente. La compagnia aveva sempre preso ogni precauzione per impedire che la gente attraversasse i binari tranne che dai ponti, sia ponendo avvisi in ogni stazione, sia con l’uso di barriere brevettate ai passaggi a livello. La defunta si era data l’abitudine di attraversare i binari a tarda notte, di banchina in banchina e, in considerazione di certe altre circostanze del caso, egli non pensa che i funzionari della ferrovia siano responsabili.
Il Capitano Sinico, di Leoville, Sydney Parade, e marito della defunta, anche lui rese una deposizione. Dichiarò che la defunta era sua moglie. Egli non era a Dublino, al momento dell’incidente, essendo arrivato solo quella mattina da Rotterdam. Erano stati sposati per ventidue anni, e avevano vissuto felicemente fino a circa due anni prima, quando la moglie cominciò a essere piuttosto intemperante nelle sue abitudini.
Miss Mary Sinico disse che ultimamente sua madre si era data l’abitudine di andare fuori di notte a comprare bevande spiritose. Lei, la testimone, aveva spesso provato a ragionare con la madre, inducendola a iscriversi a una Lega. Non era tornata a casa che un’ora dopo l’incidente. La giuria ratificò un verdetto in conformità col referto medico e esonerò Lennon da ogni responsabilità.
Il Delegato Coroner disse che si era trattato di un caso assai doloroso, e espresse grande simpatia al Capitano Sinico e a sua figlia. Ha raccomandato alla compagnia ferroviaria di prendere forti misure per impedire in futuro la possibilità di simili incidenti. Nessuna responsabilità attribuita a chicchessia.
Mr Duffy alzò gli occhi dal giornale e fissò fuori dalla finestra il mesto paesaggio della sera. Il fiume scorreva quieto accanto alla vuota distilleria e di tanto in tanto una luce appariva in qualche casa di Lucan Road. Che fine! Della morte di lei, lo disgustava l’intera narrazione, e poi, di lei, lo disgustava il pensare che le avesse parlato di ciò che si riteneva sacro. Le trite frasi, le inane espressioni di simpatia, le caute parole di un cronista capacitato a celare i dettagli di una morte ordinaria e volgare, lo prendevano allo stomaco. Lei non solamente aveva degradato sé stessa; aveva degradato lui. Egli vedeva lo squallido territorio donde lei aveva aormato il proprio vizio, miserabile e maleolente. La compagna della sua anima! Pensò alle barcollanti disgraziate cui aveva visto portare fiaschette e bottiglie da far riempire dal barista. O Dio, che fine! Evidentemente lei era stata inadatta a vivere, senza nessuna forza applicata a uno scopo, una facile preda delle abitudini, uno dei relitti sovrastati dalla civiltà. Ma che lei potesse esser subissata così in basso! Era mai possibile che egli avesse così totalmente ingannato sé stesso, riguardo a lei? Rammentò lo scatto di quella notte e lo interpretò in un senso più severo di quanto avesse mai fatto. Non aveva difficoltà ora nell’approvare la decisione presa.
Mentre la luce svaniva, e la sua memoria cominciava a divagare, egli ebbe l’impressione che la mano di lei toccasse la sua. Lo shock che lo aveva dianzi preso allo stomaco gli stava ora dando ai nervi. Si mise alla svelta il soprabito e il cappello e uscì. Sulla soglia, lo sferzò l’aria fredda; gli s’insinuò all’interno delle maniche del cappotto. Quando raggiunse il ritrovo di Chapelizod Bridge, entrò e ordinò un ponce caldo.
Il proprietario lo servì ossequiosamente, ma non si arrischiò a parlare. Nel pub c’erano cinque o sei lavoratori che stavano discutendo il valore della possidenza pertinente a un signorotto nella Contea di Kildare. A intervalli bevevano da enormi bicchieroni a una pinta e fumavano, sputando spesso sul pavimento e a volte, coi loro pesanti scarponi, trascinando la segatura sugli sputi. Seduto sul suo sgabello, Mr Duffy fissava i lavoratori, ma senza vederli o udirli. Dopo un po’ se ne andarono via ed egli ordinò un altro ponce. Con esso ponce stetteci seduto un sacco di tempo. Il pub era molto tranquillo. Buttato sul bancone, il proprietario leggeva l’Herald e sbadigliava. Di quando in quando da fuori giungeva il frullio di un tram in transito lungo la strada solitaria.
Mentre stava seduto là, rivivendo la sua vita con lei ed evocando alternativamente le due immagini nelle quali ora la concepiva, egli realizzò che lei era morta, che aveva cessato di esistere, che era diventata un ricordo. Cominciò a sentirsi a disagio. Si domandò che altro avrebbe potuto fare. Non avrebbe potuto portare avanti con lei una commedia d’inganni; non avrebbe potuto vivere con lei apertamente. Aveva fatto ciò che gli era parso il meglio. Come si poteva biasimare? Ora che lei non c’era più, egli si rendeva conto di quanto doveva essere stata solitaria la vita di lei, sedendo, notte dopo notte, da sola in quella stanza. Anche per lui la vita sarebbe stata solitaria, fino a che egli pure, morto, cessato di esistere, sarebbe diventato un ricordo – se mai qualcuno lo avesse ricordato.
Erano le nove passate quando lasciò il pub. La notte era fredda e cupa. Egli entrò nel Parco dal primo cancello e camminò sotto gli alberi spogli. Camminò attraverso i gelidi vialetti dove avevano camminato quattro anni prima. Lei sembrava essergli vicino nell’oscurità. A tratti gli sembrava di sentire la voce di lei toccare il suo orecchio, la mano di lei toccare la sua. Stando in piedi rimase immobile in ascolto. Perché aveva rifiutato la vita da lei? Perché l’aveva condannata a morte? Sentiva la sua natura morale cadere a pezzi.
Quando pervenne sulla cima della Magazine Hill, si fermò e guardò lungo il fiume verso Dublino, le cui luci ardevano rosse e ospitali nella notte fredda. Guardò giù per il pendio e, alla base, nell’ombra del muro del Parco, vide giacervi alcune figure umane. Quei venali e furtivi amori lo riempivano di disperazione. Ruminò la rettitudine della sua vita; sentiva che era stato escluso dal banchetto della vita. Una creatura umana aveva mostrato di amarlo e lui le aveva negato vita e felicità: l’aveva condannata all’ignominia, a una morte vergognosa. Egli sapeva che le persone prostrate laggiù, presso il muro, lo stavano osservando, e desideravano che se ne andasse. Nessuno lo voleva; era escluso dal banchetto della vita. Volse gli occhi sul fiume grigio e brillante che sinuoso si allungava verso Dublino. Di là dal fiume, vide un treno merci serpeggiar fuori dalla Kingsbridge Station, simile a un verme, fiammea la testa, serpeggiante attraverso l’oscurità, ostinatamente e laboriosamente. Scomparve a rilento fuori dalla vista; ma egli aveva ancora nelle orecchie il laborioso rumore della locomotiva reiterante le sillabe del nome di lei.
Tornò indietro per la via da cui era venuto, il ritmo della locomotiva gli martellava nelle orecchie. Cominciò a dubitare della realtà di ciò che la memoria gli diceva. Si fermò sotto un albero e lasciò che il ritmo via via morisse. Riuscì a non sentirla vicino nel buio né la voce di lei gli toccava l’orecchio. Attese per alcuni minuti in ascolto. Non udiva niente: la notte era perfettamente silenziosa. Ascoltò di nuovo: perfettamente silenziosa. Sentì che era solo.
***
Mr James Duffy lived in Chapelizod because he wished to live as far as possible from the city of which he was a citizen and because he found all the other suburbs of Dublin mean, modern and pretentious. He lived in an old sombre house and from his windows he could look into the disused distillery or upwards along the shallow river on which Dublin is built. The lofty walls of his uncarpeted room were free from pictures. He had himself bought every article of furniture in the room: a black iron bedstead, an iron washstand, four cane chairs, a clothes-rack, a coal-scuttle, a fender and irons and a square table on which lay a double desk. A bookcase had been made in an alcove by means of shelves of white wood. The bed was clothed with white bedclothes and a black and scarlet rug covered the foot. A little hand-mirror hung above the washstand and during the day a white-shaded lamp stood as the sole ornament of the mantelpiece. The books on the white wooden shelves were arranged from below upwards according to bulk. A complete Wordsworth stood at one end of the lowest shelf and a copy of the Maynooth Catechism, sewn into the cloth cover of a notebook, stood at one end of the top shelf. Writing materials were always on the desk. In the desk lay a manuscript translation of Hauptmann’s Michael Kramer, the stage directions of which were written in purple ink, and a little sheaf of papers held together by a brass pin. In these sheets a sentence was inscribed from time to time and, in an ironical moment, the headline of an advertisement for Bile Beans had been pasted on to the first sheet. On lifting the lid of the desk a faint fragrance escaped – the fragrance of new cedarwood pencils or of a bottle of gum or of an overripe apple which might have been left there and forgotten.
Mr Duffy abhorred anything which betokened physical or mental disorder. A medival doctor would have called him saturnine. His face, which carried the entire tale of his years, was of the brown tint of Dublin streets. On his long and rather large head grew dry black hair and a tawny moustache did not quite cover an unamiable mouth. His cheekbones also gave his face a harsh character; but there was no harshness in the eyes which, looking at the world from under their tawny eyebrows, gave the impression of a man ever alert to greet a redeeming instinct in others but often disappointed. He lived at a little distance from his body, regarding his own acts with doubtful side-glasses. He had an odd autobiographical habit which led him to compose in his mind from time to time a short sentence about himself containing a subject in the third person and a predicate in the past tense. He never gave alms to beggars and walked firmly, carrying a stout hazel.
He had been for many years cashier of a private bank in Baggot Street. Every morning he came in from Chapelizod by tram. At midday he went to Dan Burke’s and took his lunch – a bottle of lager beer and a small trayful of arrowroot biscuits. At four o’clock he was set free. He dined in an eating-house in George’s Street where he felt himself safe from the society of Dublin’s gilded youth and where there was a certain plain honesty in the bill of fare. His evenings were spent either before his landlady’s piano or roaming about the outskirts of the city. His liking for Mozart’s music brought him sometimes to an opera or a concert: these were the only dissipations of his life.
He had neither companions nor friends, church nor creed. He lived his spiritual life without any communion with others, visiting his relatives at Christmas and escorting them to the cemetery when they died. He performed these two social duties for old dignity’s sake but conceded nothing further to the conventions which regulate the civic life. He allowed himself to think that in certain circumstances he would rob his hank but, as these circumstances never arose, his life rolled out evenly – an adventureless tale.
One evening he found himself sitting beside two ladies in the Rotunda. The house, thinly peopled and silent, gave distressing prophecy of failure. The lady who sat next him looked round at the deserted house once or twice and then said:
“What a pity there is such a poor house tonight! It’s so hard on people to have to sing to empty benches.”
He took the remark as an invitation to talk. He was surprised that she seemed so little awkward. While they talked he tried to fix her permanently in his memory. When he learned that the young girl beside her was her daughter he judged her to be a year or so younger than himself. Her face, which must have been handsome, had remained intelligent. It was an oval face with strongly marked features. The eyes were very dark blue and steady. Their gaze began with a defiant note but was confused by what seemed a deliberate swoon of the pupil into the iris, revealing for an instant a temperament of great sensibility. The pupil reasserted itself quickly, this half-disclosed nature fell again under the reign of prudence, and her astrakhan jacket, moulding a bosom of a certain fullness, struck the note of defiance more definitely.
He met her again a few weeks afterwards at a concert in Earlsfort Terrace and seized the moments when her daughter’s attention was diverted to become intimate. She alluded once or twice to her husband but her tone was not such as to make the allusion a warning. Her name was Mrs Sinico. Her husband’s great-great-grandfather had come from Leghorn. Her husband was captain of a mercantile boat plying between Dublin and Holland; and they had one child.
Meeting her a third time by accident he found courage to make an appointment. She came. This was the first of many meetings; they met always in the evening and chose the most quiet quarters for their walks together. Mr Duffy, however, had a distaste for underhand ways and, finding that they were compelled to meet stealthily, he forced her to ask him to her house. Captain Sinico encouraged his visits, thinking that his daughter’s hand was in question. He had dismissed his wife so sincerely from his gallery of pleasures that he did not suspect that anyone else would take an interest in her. As the husband was often away and the daughter out giving music lessons Mr Duffy had many opportunities of enjoying the lady’s society. Neither he nor she had had any such adventure before and neither was conscious of any incongruity. Little by little he entangled his thoughts with hers. He lent her books, provided her with ideas, shared his intellectual life with her. She listened to all.
Sometimes in return for his theories she gave out some fact of her own life. With almost maternal solicitude she urged him to let his nature open to the full: she became his confessor. He told her that for some time he had assisted at the meetings of an Irish Socialist Party where he had felt himself a unique figure amidst a score of sober workmen in a garret lit by an inefficient oil-lamp. When the party had divided into three sections, each under its own leader and in its own garret, he had discontinued his attendances. The workmen’s discussions, he said, were too timorous; the interest they took in the question of wages was inordinate. He felt that they were hard-featured realists and that they resented an exactitude which was the produce of a leisure not within their reach. No social revolution, he told her, would be likely to strike Dublin for some centuries.
She asked him why did he not write out his thoughts. For what, he asked her, with careful scorn. To compete with phrasemongers, incapable of thinking consecutively for sixty seconds? To submit himself to the criticisms of an obtuse middle class which entrusted its morality to policemen and its fine arts to impresarios?
He went often to her little cottage outside Dublin; often they spent their evenings alone. Little by little, as their thoughts entangled, they spoke of subjects less remote. Her companionship was like a warm soil about an exotic. Many times she allowed the dark to fall upon them, refraining from lighting the lamp. The dark discreet room, their isolation, the music that still vibrated in their ears united them. This union exalted him, wore away the rough edges of his character, emotionalised his mental life. Sometimes he caught himself listening to the sound of his own voice. He thought that in her eyes he would ascend to an angelical stature; and, as he attached the fervent nature of his companion more and more closely to him, he heard the strange impersonal voice which he recognised as his own, insisting on the soul’s incurable loneliness. We cannot give ourselves, it said: we are our own. The end of these discourses was that one night during which she had shown every sign of unusual excitement, Mrs Sinico caught up his hand passionately and pressed it to her cheek.
Mr Duffy was very much surprised. Her interpretation of his words disillusioned him. He did not visit her for a week, then he wrote to her asking her to meet him. As he did not wish their last interview to be troubled by the influence of their ruined confessional they meet in a little cakeshop near the Parkgate. It was cold autumn weather but in spite of the cold they wandered up and down the roads of the Park for nearly three hours. They agreed to break off their intercourse: every bond, he said, is a bond to sorrow. When they came out of the Park they walked in silence towards the tram; but here she began to tremble so violently that, fearing another collapse on her part, he bade her good-bye quickly and left her. A few days later he received a parcel containing his books and music.
Four years passed. Mr Duffy returned to his even way of life. His room still bore witness of the orderliness of his mind. Some new pieces of music encumbered the music-stand in the lower room and on his shelves stood two volumes by Nietzsche: Thus Spake Zarathustra and The Gay Science. He wrote seldom in the sheaf of papers which lay in his desk. One of his sentences, written two months after his last interview with Mrs. Sinico, read: Love between man and man is impossible because there must not be sexual intercourse and friendship between man and woman is impossible because there must be sexual intercourse. He kept away from concerts lest he should meet her. His father died; the junior partner of the bank retired. And still every morning he went into the city by tram and every evening walked home from the city after having dined moderately in George’s Street and read the evening paper for dessert.
One evening as he was about to put a morsel of corned beef and cabbage into his mouth his hand stopped. His eyes fixed themselves on a paragraph in the evening paper which he had propped against the water-carafe. He replaced the morsel of food on his plate and read the paragraph attentively. Then he drank a glass of water, pushed his plate to one side, doubled the paper down before him between his elbows and read the paragraph over and over again. The cabbage began to deposit a cold white grease on his plate. The girl came over to him to ask was his dinner not properly cooked. He said it was very good and ate a few mouthfuls of it with difficulty. Then he paid his bill and went out.
He walked along quickly through the November twilight, his stout hazel stick striking the ground regularly, the fringe of the buff Mail peeping out of a side-pocket of his tight reefer overcoat. On the lonely road which leads from the Parkgate to Chapelizod he slackened his pace. His stick struck the ground less emphatically and his breath, issuing irregularly, almost with a sighing sound, condensed in the wintry air. When he reached his house he went up at once to his bedroom and, taking the paper from his pocket, read the paragraph again by the failing light of the window. He read it not aloud, but moving his lips as a priest does when he reads the prayers Secreto. This was the paragraph:
DEATH OF A LADY AT SYDNEY PARADE
A PAINFUL CASE
Today at the City of Dublin Hospital the Deputy Coroner (in the absence of Mr Leverett) held an inquest on the body of Mrs Emily Sinico, aged forty-three years, who was killed at Sydney Parade Station yesterday evening. The evidence showed that the deceased lady, while attempting to cross the line, was knocked down by the engine of the ten o’clock slow train from Kingstown, thereby sustaining injuries of the head and right side which led to her death.
James Lennon, driver of the engine, stated that he had been in the employment of the railway company for fifteen years. On hearing the guard’s whistle he set the train in motion and a second or two afterwards brought it to rest in response to loud cries. The train was going slowly.
P. Dunne, railway porter, stated that as the train was about to start he observed a woman attempting to cross the lines. He ran towards her and shouted, but, before he could reach her, she was caught by the buffer of the engine and fell to the ground.
A juror. “You saw the lady fall?”
Witness. “Yes.”
Police Sergeant Croly deposed that when he arrived he found the deceased lying on the platform apparently dead. He had the body taken to the waiting-room pending the arrival of the ambulance.
Constable 57E corroborated.
Dr Halpin, assistant house surgeon of the City of Dublin Hospital, stated that the deceased had two lower ribs fractured and had sustained severe contusions of the right shoulder. The right side of the head had been injured in the fall. The injuries were not sufficient to have caused death in a normal person. Death, in his opinion, had been probably due to shock and sudden failure of the heart’s action.
Mr H. B. Patterson Finlay, on behalf of the railway company, expressed his deep regret at the accident. The company had always taken every precaution to prevent people crossing the lines except by the bridges, both by placing notices in every station and by the use of patent spring gates at level crossings. The deceased had been in the habit of crossing the lines late at night from platform to platform and, in view of certain other circumstances of the case, he did not think the railway officials were to blame.
Captain Sinico, of Leoville, Sydney Parade, husband of the deceased, also gave evidence. He stated that the deceased was his wife. He was not in Dublin at the time of the accident as he had arrived only that morning from Rotterdam. They had been married for twenty-two years and had lived happily until about two years ago when his wife began to be rather intemperate in her habits.
Miss Mary Sinico said that of late her mother had been in the habit of going out at night to buy spirits. She, witness, had often tried to reason with her mother and had induced her to join a League. She was not at home until an hour after the accident. The jury returned a verdict in accordance with the medical evidence and exonerated Lennon from all blame.
The Deputy Coroner said it was a most painful case, and expressed great sympathy with Captain Sinico and his daughter. He urged on the railway company to take strong measures to prevent the possibility of similar accidents in the future. No blame attached to anyone.
Mr Duffy raised his eyes from the paper and gazed out of his window on the cheerless evening landscape. The river lay quiet beside the empty distillery and from time to time a light appeared in some house on the Lucan road. What an end! The whole narrative of her death revolted him and it revolted him to think that he had ever spoken to her of what he held sacred. The threadbare phrases, the inane expressions of sympathy, the cautious words of a reporter won over to conceal the details of a commonplace vulgar death attacked his stomach. Not merely had she degraded herself; she had degraded him. He saw the squalid tract of her vice, miserable and malodorous. His soul’s companion! He thought of the hobbling wretches whom he had seen carrying cans and bottles to be filled by the barman. Just God, what an end! Evidently she had been unfit to live, without any strength of purpose, an easy prey to habits, one of the wrecks on which civilisation has been reared. But that she could have sunk so low! Was it possible he had deceived himself so utterly about her? He remembered her outburst of that night and interpreted it in a harsher sense than he had ever done. He had no difficulty now in approving of the course he had taken.
As the light failed and his memory began to wander he thought her hand touched his. The shock which had first attacked his stomach was now attacking his nerves. He put on his overcoat and hat quickly and went out. The cold air met him on the threshold; it crept into the sleeves of his coat. When he came to the public-house at Chapelizod Bridge he went in and ordered a hot punch.
The proprietor served him obsequiously but did not venture to talk. There were five or six workingmen in the shop discussing the value of a gentleman’s estate in County Kildare. They drank at intervals from their huge pint tumblers and smoked, spitting often on the floor and sometimes dragging the sawdust over their spits with their heavy boots. Mr Duffy sat on his stool and gazed at them, without seeing or hearing them. After a while they went out and he called for another punch. He sat a long time over it. The shop was very quiet. The proprietor sprawled on the counter reading the Herald and yawning. Now and again a tram was heard swishing along the lonely road outside.
As he sat there, living over his life with her and evoking alternately the two images in which he now conceived her, he realised that she was dead, that she had ceased to exist, that she had become a memory. He began to feel ill at ease. He asked himself what else could he have done. He could not have carried on a comedy of deception with her; he could not have lived with her openly. He had done what seemed to him best. How was he to blame? Now that she was gone he understood how lonely her life must have been, sitting night after night alone in that room. His life would be lonely too until he, too, died, ceased to exist, became a memory – if anyone remembered him.
It was after nine o’clock when he left the shop. The night was cold and gloomy. He entered the Park by the first gate and walked along under the gaunt trees. He walked through the bleak alleys where they had walked four years before. She seemed to be near him in the darkness. At moments he seemed to feel her voice touch his ear, her hand touch his. He stood still to listen. Why had he withheld life from her? Why had he sentenced her to death? He felt his moral nature falling to pieces.
When he gained the crest of the Magazine Hill he halted and looked along the river towards Dublin, the lights of which burned redly and hospitably in the cold night. He looked down the slope and, at the base, in the shadow of the wall of the Park, he saw some human figures lying. Those venal and furtive loves filled him with despair. He gnawed the rectitude of his life; he felt that he had been outcast from life’s feast. One human being had seemed to love him and he had denied her life and happiness: he had sentenced her to ignominy, a death of shame. He knew that the prostrate creatures down by the wall were watching him and wished him gone. No one wanted him; he was outcast from life’s feast. He turned his eyes to the grey gleaming river, winding along towards Dublin. Beyond the river he saw a goods train winding out of Kingsbridge Station, like a worm with a fiery head winding through the darkness, obstinately and laboriously. It passed slowly out of sight; but still he heard in his ears the laborious drone of the engine reiterating the syllables of her name.
He turned back the way he had come, the rhythm of the engine pounding in his ears. He began to doubt the reality of what memory told him. He halted under a tree and allowed the rhythm to die away. He could not feel her near him in the darkness nor her voice touch his ear. He waited for some minutes listening. He could hear nothing: the night was perfectly silent. He listened again: perfectly silent. He felt that he was alone.
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